I musei nostrani e la comunicazione 2.0: siamo troppo poco “social”

L’utilizzo dei social come canale promozionale e partecipativo dei musei di mezzo mondo è ancora un miraggio per i musei italiani, fanalino di coda d’Europa. La Campania regione troppo poco “social“.

Necessità o moda? Bisogno di comunicare per promuovere la propria offerta o semplice modo per seguire l’andazzo generale? Le motivazioni che spingono un museo a rapportarsi con le nuove conquiste “social” nell’era 2.0 sembrano rientrare nel primo o nel secondo caso.

In realtà, creare un profilo “perché lo fanno tutti”, senza coltivarne le potenzialità è un errore marchiano. Infatti, costruire e incrementare la presenza sui social network è una questione di comunicazione ad ampio raggio, significa espandere il sistema offerta del museo ad un pubblico virtuale pressoché illimitato: Facebook, Twitter, Google+, Pinterest et cetera rappresentano la nuova forma di engagement della comunità, il percorso verso una partecipazione più piena e sempre meno legata ad una visione comunicazionale di tipo top-down e ad un coinvolgimento limitato dell’utente.

Il pubblico come protagonista della piazza online messa a disposizione delle nuove piattaforme: è questa la reinterpretazione postmoderna e virtuale dell’idea contemporanea di museo, forum di discussione e dialogo, spazio di partecipazione e condivisione; tutte parole, queste ultime, entrate nel vocabolario collettivo di chi naviga ogni giorno da un social network all’altro. È questo il motivo per cui il Moma, il Metropolitan, la British Gallery, il Louvre, il Prado e tutti gli altri grandi musei del mondo hanno affiancato alla promozione tradizionale una solida presenza online. Milioni di likes sulla pagina Facebook, migliaia di tweet ogni giorno, centinaia di fotografie caricate sul profilo Flickr costituiscono una parte della loro complessa attività mediatica.

E l’Italia? Museum Analytics è una piattaforma online per condividere e discutere informazioni sui musei e sul loro pubblico dove, per ogni istituzione, è presente un rapporto aggiornato quotidianamente con notifiche sull’audience online e offline. Stando a questo strumento virtuale, per trovare il primo museo italiano bisogna scorre la classifica mondiale fino all’ottantacinquesimo posto; qui si posiziona il Maxxi di Roma, premiato dall’Icom nel 2012 per essersi distinto nell’uso dei mezzi social. La questione è chiara: a parte qualche realtà “illuminata”, come il Maxxi, appunto, o il Mart di Trento e Rovereto e Palazzo Madama di Torino, non c’è museo nostrano che abbia messo in piedi una strategia di comunicazione sui social network in grado di competere con i numeri delle grandi realtà estere sopra citate.

Ancor più allarmante è la situazione campana: digitando il nome di un museo campano su Facebook troviamo il relativo profilo istituzionale solo nel 5% dei casi rispetto all’intera rete di musei regionali. Il Museo Nazionale di Capodimonte, il Madre di Napoli, il Cam di Casoria hanno deciso di adeguarsi alle esigenze dettate dalla contemporaneità: eppure, nella maggioranza dei casi, essi non sono in grado di accrescere il coinvolgimento del pubblico ed il senso di appartenenza ad una comunità, fidelizzando il proprio pubblico attraverso la promozione di attività dedicate. Ciò che emerge dall’analisi delle istituzioni museali campane in ottica 2.0 è un utilizzo contratto dei social network, dove i nuovi media sono solo giustapposti, non integrati nei processi decisionali e generatori di consapevolezza.

Per avvicinarsi alla social media strategy del Moma o della Tate c’è molto da lavorare; ma per ora, l’adeguamento della maggioranza dei musei campani alle nuove forme di comunicazione costituisce un aggiornamento solo fittizio e un modo di porsi troppo statico e non realmente partecipativo.

Autore: Marco Napolitano

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